E’ una questione di governance

La Patria è un sentimento, nasce da un senso di appartenenza e s’incarna in un luogo, in una lingua, in una cultura, in un popolo e nelle sue istituzioni, l’etimologia di «patria» deriva da «terram patria(m)», «terra dei padri».

Siamo arrivati al paradosso che recentemente si è ricominciato a parlare di Patria quasi solo in funzione di un rifiuto del diverso; e la Patria, che da tanto tempo non faceva più battere i cuori di nessuno se non in occasione dei Mondiali di calcio, sembra tornata in auge per contrapporla ad altre Patrie e ad altri contesti culturali, la si usa come un’arma, come un clava da brandire contro il «nemico», reale o anche solo potenziale.

In realtà il patriottismo, il sentirsi parte di una comunità che condivide valori, cultura e lingua richiede impegno e responsabilità nel completare un processo che in Italia, pur partendo da molto lontano, è ancora incompiuto.

Noi siamo l’eredità di una storia millenaria, fatta di Comuni, piccoli borghi e campanili che ci rende una nazione poco coesa, come disse d’Azeglio: “fatta l’Italia ora si tratta di fare gli italiani”, un processo tuttora in corso. L’abbondanza delle nostre diversità è un valore, perché è proprio la varietà a renderci unici: la diversità, nel bene e nel male, caratterizza l’Italia. È un po’ la nostra dannazione e la nostra ricchezza. Una ricchezza purtroppo disorganizzata, di infinite possibilità non tradotte in opportunità concrete.

Chi arriva nel Belpaese prova stupore e meraviglia per la varietà enogastronomica, di culture e tradizioni, di paesaggi unici spesso separati da una manciata di chilometri. L’eterno dibattito che ci accompagna da generazioni sul come governare, valorizzare e conservare le nostre specificità e la nostra ricchezza senza perdere di vista una direzione comune non ha finora prodotto risultati apprezzabili. Realtà di incomprensibile degrado, come lo stato agonizzante della nostra Capitale, sono l’esempio di quanto sia difficile capire se la causa sia imputabile all’incapacità dei singoli amministratori o ai limiti oggettivi derivanti da una governance caotica che rende la raccolta rifiuti o il funzionamento del trasporto pubblico (problemi, per inciso, tipici di un Paese del Terzo Mondo) imprese titaniche. Sempre di più Roma è il simbolo di un Sud del Paese che sta scivolando fuori dall’Europa, e direi dalla Patria che vogliamo, per reddito pro-capite, livello di istruzione, opportunità per i giovani e in generale per la qualità della vita mentre, in questo stesso Paese, Milano è tornata ad essere una metropoli di livello europeo, capitale di una parte del Nord che chiede a gran voce, non senza ragioni, autonomie locali sempre più ampie. Questa spinta centrifuga, queste diversità sempre più profonde mettono in seria discussione le fondamenta stesse del concetto di Patria e di Paese.

Non è dando sempre maggiore autonomia a singole Regioni o zone dell’Italia (vedere lo sciagurato disegno delle regioni a Statuto autonomo, valga per tutti la Sicilia) che si rafforza l’intero Paese e il concetto di Patria, piuttosto vanno rimossi gli ostacoli che impediscono di raggiungere ovunque standards di livello Paese Europeo. Non può esserci Dignità Nazionale senza recupare l’orgoglio di appartenenza. Non basta il “pannicello caldo” del Reddito di Cittadinanza, ci vogliono strategie di intervento di medio lungo periodo perchè lo Stato riprenda il controllo di vaste aree di territorio in mano a Mafie e Camorre, crei nuove infrastrutture, investimenta in Scuole, Ospedali, Conoscenza.  La Patria è la Patria di tutti. La Patria è sentirsi a casa propria in Trentino come in Sicilia, assicurando ovunque e ad ogni cittadino le stesse opportunità. Non è creando steccati sempre più angusti, favorendo localismi sempre più marcati che si rinsalda il concetto di Patria, perché a furia di cercare le specificità che ci dividono invece dei valori che ci accomunano finiremo per creare barriere anche nei singoli appartamenti delle nostre case.  La Storia sta andando in un’altra direzione, ci sta chiedendo di essere Italiani ed Europei allo stesso tempo senza perdere i valori di Patria che ci accomunano.

La governance di questo Paese è cosi confusa che dipanare la matassa su Responsabilità, Meriti/Demeriti e Poteri realmente esercitabili da tutti gli Attori in gioco ed in primis dalla Politica è diventato impossibile. Costruire nuovi impianti di smaltimento rifiuti, manutenere i Ponti (o ricostruire un Ponte), far funzionare i trasporti pubblici, le Scuole, gli Ospedali, perfino mettere la benzina nelle Volanti della Polizia sta diventando una eterna partita di tennis dove ci si rimpalla per anni la responsabilità senza vincitori e un solo vinto: noi tutti. E su tutto aleggia il Mantra che alla fine mette tutti d’accordo: sono finiti i soldi.

Ma non è vero.

E’ una colossale bugia che ci vogliamo raccontare. Un alibi per mascherare la cruda realtà dell’immobilismo: slegare la responsabilità dal potere di fare le cose, che sono invece due facce della stessa medaglia. Non posso fare le riforme perché il potere di farlo è altrove, oppure perché non ho i soldi per farlo. Così facendo ci si deresponsabilizza come Paese e si legittima il non fare giustificandolo con l’alibi delle libertà tolteci da una governance europea superiore che, seppur inadeguata (per mancate armonizzazioni dei sistemi fiscali e delle condizioni di rischio dei singoli Stati membri), non è di sicuro la causa di tutti i nostri mali.

In sintesi è sempre colpa di qualcun altro. Ma non è cosi.

È una bugia culturale: il marketing politico sta sempre più semplificando e aggregando la realtà per categorie, anche grazie all’utilizzo dei social che danno libero accesso a qualunque credenza senza filtri. La rinuncia all’analisi critica delle informazioni, delle fonti e dei dati, insomma la rinuncia a studiare, abbinata al concetto che uno vale uno sempre e comunque, indipendentemente dalla professionalità e dal merito, trasforma le opinioni in gruppi di fazioni, influenzando fortemente la Politica nel nostro e in molti altri Paesi con democrazie mature. E’ un fenomeno che le spinge verso un baratro rovinoso e apre un varco a Paesi, come la Cina e la Russia, pronte a cogliere qualsiasi opportunità per ampliare la propria sfera di influenza sui vaste aree del Mondo. Il rischio è che in un futuro prossimo questa deriva rischi di rendere democrazie faticosamente costruite con il sangue e il sudore succubi (almeno da un punto di vista capitalistico-finanziario) di società che democratiche non sono.

Il Patriottismo è una parola vuota se non riconciliamo i Poteri con le Responsabilità, magari semplificando i centri di potere e soprattutto rivedendo il sistema dei veti incrociati. L’intero impianto di governance di questo Paese, basato sulla eccessiva proliferazione di Pesi e Contrappesi, ci ha impantanati. L’Italia è una nazione ferma: è vero che da tempo viviamo una crisi di Leadership, di Statisti in grado di indicare la meta e guidare verso un Sogno, capaci di unire e non di dividere, ma credo ci sia soprattutto un problema di governance, di organizzazione e di leve. Anche i molti Politici e Amministratori onesti, bravi e competenti di questo Paese arrancano di fronte al groviglio burocratico, legislativo e di poteri nel quale ci siamo infilati.

Siamo sicuri, per esempio, che a distanza di oltre 70 anni le regole di funzionamento della nostra Repubblica siano ancora attuali e non sia invece giunta l’ora di aprire un serio dibattito sulla necessità di aggiornare/rivedere questo impianto? L’obiettivo di frazionare in modo ampio i poteri rispondeva alla necessità di dimenticare velocemente il ventennio fascista improntato sull’ inaccettabile accentramento di potere nelle mani di un’unica persona. Oggi, con il crescere e il consolidarsi della democrazia, questa priorità ha perso di significato mostrando tutti i limiti di un sistema che ha finito per far tracimare il dibattito in infiniti veti incrociati all’azione programmatica dei governi che si susseguono senza veramente poter incidere. La modifica del Titolo V della Costituzione nel 2001 ha ulteriormente peggiorato le cose, moltiplicando i centri di decisione e di spesa a livello locale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’immobilismo, ideale terreno di coltura dei fenomeni Nimby (not in my backyard) per i quali, a prescindere, prevalgono i no. No a tutto, senza se e senza ma, e se proprio c’è il rischio che qualcosa si faccia c’e sempre un TAR a cui ricorrere per bloccare qualsiasi cosa.

Intano l’italianità rischia di diventare un concetto effimero, più che altro un’occasione persa.  Non basta affidarsi all’effetto Made in Italy se alla base mancano un quadro solido e una visione strategica di medio-lungo termine sul chi e cosa vogliamo essere.  Le imprese hanno bisogno per crescere di certezze, di infrastrutture, di stabilità. Solo le aziende di una certa dimensione sono in grado di navigare fuori dai confini nazionali.  Abbiamo una stratificazione (e dispersione) dei livelli decisionali e/o di veto a cui si aggiunge una stratificazione dei poteri a livello geografico (Stato, Regione, Provincia, Comune) che rendono un atto eroico qualsiasi attività imprenditoriale.  Oggi, paradossalmente, conviene non fare.

Per non avere più casi come Fincantieri STX e o il recente FCA–Renault e aumentare il nostro peso politico in Europa va sostituita una collaborazione fattiva, propositiva e autorevole all’attuale  strategia di contrapposizione. Va rafforzata la competitività e la presenza all’estero delle imprese italiane concentrando gli sforzi per favorirne la produttività; ridurre il cuneo fiscale sul lavoro; favorire la crescita delle piccole e medie imprese (il nanismo e il concetto del piccolo e bello sono, anche questi, falsi miti) favorendo  fusioni o crescita organica; ridurre i lacci burocratici, i tempi dei processi, la corruzione; aumentare la capitalizzazione delle imprese, incentivare gli investimenti in Ricerca e Sviluppo e in infrastrutture (i treni ad alta velocità si fermano a Salerno escludendo completamente il Sud del paese, come se intere Regioni ancora non fossero parte del Paese).

Bisogna avere il coraggio delle scelte.

Gli sforzi dei singoli non reggono l’urto dell’immobilismo. Lo dice l’andamento degli indici economici degli ultimi dieci anni. Non è un problema di soldi ma di scelte (e fare delle scelte significa avere il coraggio di rendere scontento qualcuno). Ci sono scelte strategiche, soprattutto di medio e lungo periodo, che non possono essere semplicemente oggetto di referendum via web o twittate sui social: spetta alla Politica, la Politica Alta, farsene carico.

Spetta alla Politica fermare l’ormai consolidata e pessima abitudine di prendere decisioni e adottare norme retroattive.  Esiste un problema di commitment (sia in tema di politica interna che di obblighi contrattuali con Paesi Esteri), per cui gli impegni presi dai governi precedenti vengono allegramente sconfessati da quelli successivi, con disastrose conseguenze economiche e d’immagine. Una pratica inesistente nell’ambito privato che, invece, imperversa in ambito pubblico. È una discrasia che oggettivamente fatico a capire. Alla nostra reputazione, soprattutto all’estero, non giovano queste disomogeneità e queste mancate promesse. È un approccio pericoloso, che desertifica l’imprenditorialità, mina la fiducia e danneggia enormemente la nostra immagine all’estero.

Spetta alla Politica indirizzare il Paese. Indicare l’orizzonte, motivare, coinvolgere, dare speranza, accettare sacrifici in nome di un avvenire migliore. Ridare un senso agli immensi sacrifici delle passate generazioni che questo Paese lo hanno costruito. Come altrimenti sarebbe possibile fare scelte che impongono sacrifici nel breve ma che nel medio-lungo periodo assicurano risultati? Come pensare che temi a forte contenuto scientifico (i Vaccini, per esempio), o Sociale (investimenti in nuovi impianti per lo smaltimento dei rifiuti) o internazionali (Difesa, immigrazione, infrastrutture transnazionali) possano essere oggetto di continui referendum? Votare significa delegare qualcuno che si assume l’onere di portare avanti un programma, di farsi carico di fare delle scelte, di realizzare quelle scelte. La democrazia rappresentativa è nata per questo. Fatta eccezione di temi etici di vasta portata (il divorzio, l’aborto, il fine vita o il testamento biologico, ad esempio) non si può governare un Paese con continui sondaggi di opinione, referendum o colpi di like, Io sono un manager e semmai si facesse un referendum sui Vaccini non intendo esprimere un voto su una materia di cui non conosco i termini scientifici. Ma in una democrazia rappresentativa pretendo che chi ho votato interpelli il gotha del mondo scientifico prima di prendere una decisione dagli enormi impatti sociali, e non che conti i voti a favore o contro raccolti sul web. Si chiama Responsabilità di Governo.

La Politica è la risposta a scelte difficili, che spesso attraversano le generazioni trascendendo i bisogni particolari: come si risponde ad un generalizzato processo di invecchiamento della popolazione italiana per il quale a breve il 33% della popolazione avrà più di 65 anni (con natalità zero)? Come è possibile, con un simile quadro demografico, assicurare il pagamento delle pensioni aggiungendo anche la riforma della quota 100? Pur rispondendo alle legittime richieste di categorie con lavori usuranti, chi pagherà i contributi per assicurare l’equilibrio economico dell INPS? Quali misure si vogliono adottare per la creazione di nuovi posti di lavoro indispensabili per pagare queste pensioni senza aumentare ulteriormente la voragine di oltre 2.100 miliardi di debito pubblico?

Non se ne esce certo deprimendo il mercato del lavoro. Per pagare i contributi va incentivata l’occupazione favorendo l’impresa, va mossa la ricchezza immobile rappresentata dai risparmi privati delle famiglie italiane. Nel corso degli anni abbiamo accumulato un tesoretto che ha raggiunto oltre 4.370 miliardi di euro di risparmi derivati da attività finanziarie che potrebbero essere immessi sul mercato, usati per fare. Non è tassando questa ricchezza che si risolve il problema, le persone vanno rassicurate e incoraggiate a investire.

Nonostante i numeri dicano che abbiamo un surplus di partite correnti negli scambi con l’estero, oltre ad un avanzo primario strutturale, siamo visti dall’Europa come un problema, forse perché ci stiamo ritirando dall’Europa che conta? Non è con la contrapposizione che risolviamo i problemi, siamo troppo piccoli ed esposti per fare da soli. Il nazionalismo fa leva su valori che connotano l’appartenenza come un “noi contro loro” ma il mondo, a torto o ragione, è sempre più pervaso da una fitta rete di connessioni.  Patria non è isolarsi, o dichiarare di farlo, ci fa solamente perdere credibilità, tempo e soldi, piuttosto impieghiamo il nostro tempo a fare riforme strutturali che riducano una spesa pubblica fuori controllo e una burocrazia atroce che grava su tutti noi.  Trasformare gli argomenti in derby e lotte tra fazioni non porta a nulla. Il concetto di patriottismo richiede un’analisi seria: va faticosamente cercato, coltivato e riattivato. Dobbiamo ritrovare un sistema per tornare a dialogare tra noi, per parlare di Patria e Nazione riacquistando autorevolezza. Non siamo solo pizza, musei e mandolino. La patria è appartenenza, orgoglio di una cultura comune che va innestata su una convivenza civile (che purtroppo si sta sempre più sfilacciando). Si vuole invece imporre il concetto di protonazionalismo, una via facile per ricompattare le persone identificando un nemico comune: un approccio sterile, se non deleterio, che non risolve i problemi che in origine non si è stati capaci di gestire e monitorare.

Per vincere le sfide di oggi l’Italia ha molti assi da giocare: un territorio che è immensamente ricco di risorse naturali, artistiche, culturali. Vanno incentivate le persone che hanno voglia di costruire, chi fa nonostante i grandi limiti esistenti, i tanti giovani che tornano all’agricoltura e che innovano (e rinnovano) le piccole imprese di famiglia, con la consapevolezza di fondo che vadano salvaguardati gli interessi della collettività.  È una scelta etica che rappresenterebbe una spinta propulsiva all’innovazione e a uno sviluppo coerente con i nostri saperi e le nostre risorse.

Queste sono le domande alle quali la Politica è chiamata a dare risposte.

Tratto dal libro Patria o Paese, IASSP, Rubbettino Editore, 2019.

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